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Articolo apparso su Tribuna Novarese di lunedì 26 novembre 2007

NOVARA
- Tanto tuonò che piovve, dice il detto popolare, ma sono nuvole nerissime quelle che si presentano all’orizzonte della Curia novarese.
“Siamo in piena battaglia - ci dice don Marco Pizzocchi - abbiamo deciso di non dire la messa festiva”.
In pratica i tre parroci “tridentini” hanno deciso di autosospendersi dalla celebrazione della messa festiva
che secondo quanto contenuto nella lettera del Vescovo di Novara deve essere celebrata secondo il messale di Paolo VI.
In parole povere don Alberto, don Marco e don Stefano sono entrati in sciopero.
“Abbiamo comunicato al Vescovo che non avremmo celebrato la messa di Paolo VI e la stessa cosa abbiamo fatto con il vicario di zona che è venuto a celebrare la messa a Garbagna e a Nibbiola”.
Quindi voi proseguite sulla vostra linea?
“Il comunicato stampa che è stato pubblicato da tutti i giornali ha suscitato clamore e la cosa più triste è che ci sono dei sacerdoti che ci hanno attaccato e messo alla berlina. Uno ci ha definito “testimoni di Geova” e un’altro ha detto che siamo degli “impallinati che vogliono impallinare anche i fedeli”. Ora chiediamo al Vescovo che prenda le nostre difese con un comunicato ufficiale”.
Come è andata domenica la messa celebrata secondo il rito di Paolo VI?
“Alcuni fedeli sono uscitidalla chiesa in segno di protesta”.
Molto peggio è andata a Vogogna dove domenica si sarebbe dovuto celebrare la festa patronale che di fatto non c’è stata per la protesta dei cittadini.
A Vogogna il parroco è don Alberto Secci che come don Marco si è autosospeso dalla celebrazione della messa secondo il rituale di Paolo VI, ma domenica per celebrare è andato il vicario di zona che ha trovato in chiesa solo tre donne delle quali una particolarmente vivace che in modo deciso ha denunciato che “si trova il tempo per andare a trovare Giuliana Sgrena, ma non si trova il tempo per venire a impartire la cresima”. Detto questo anche le tre donne si sono allontanate e a Vogogna dopo 500 anni non si è celebrata la festa patronale.
Un chiaro segnale di tempesta e di distanza tra il popolo dei fedeli e la curia novarese.
“L’aver reso pubblico il documento del Vescovo e che noi conoscevamo con tanto di cappello introduttivo ­ ci dice don Alberto Secci - è un chiaro segnale, ma visto che noi non giochiamo in quanto siamo dei parroci responsabili che non intendono scandalizare i fedeli, ci siamo autosospesi in maniera prudenziale dalla celebrazione della messa festiva. Ovviamente ognuno celebra la messa quotidiana, ma non vogliamo utilizzare il messale di Paolo VI”.
“La messa di San Pio V - dice don Marco Pizzocchi - ha gli stessi diritti della messa di Paolo VI. Anzi so che il Vescovo ha sulla sua scrivania 130 firme di persone che chiedono la messa secondo il rito tridentino. A questo punto si potrebbe, addirittura, pensare ad aprire una chiesa per il culto tridentino, ma credo che non sarà possibile”.
“Sappiamo che il Vescovo riceve moltissime pressioni
- ci dice don Alberto Secci - così come sappiamo che esisterebbe un documento dell’episcopato piemontese nel quale si dice che siano messi in minoranza quei sacerdoti che celebrano la messa di San Pio V”.
“Il Vescovo
- prosegue don Secci - ci ha detto che sulle questioni di fondo abbiamo ragione. Su suo consiglio abbiamo contattato monsignor Camille Perl, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, che ci ha detto che il Vescovo poteva condecerci l’esperimento triennale, suffragando le sue parole con il concetto che noi non siamo nella lettera del Motu Proprio ma nella mens. E che quindi e vi cito le parole di monsignor Perl ci poteva essere concesso l’esperimento triennale perché “il diritto segue la vita e non viceversa “”.
La questione a quel che possiamo vedere è molto complessa in quanto i tre parroci sono determinati nel perseguire il loro obiettivo che è quello di poter celebrare la messa secondo il rito di San Pio V suffragati
anche dal parere autorevole del segretario della commissione pontificia Camille Perl, mentre dall’altra ci sarebbe la curia novarese che fa di tutto per osteggiare questa volontà.
“Sono loro a porre un problema di fede e non noi ­ dice don Alberto - con una interpretazione riduttiva del Motu Proprio a cui fa contraltare una interpretazione ideologica del Vaticano II. Si fa sociologismo di bassa lega e a noi si dice di non celebrare la messa in latino, ma negli oratori, ormai, si parla solo l’arabo”.
Sono parole decise quelle di don Alberto, ma che rivelano anche una grande sofferenza per questo momento che forse non avrebbe mai voluto vivere.
Fino alla scorsa estate e alla promulgazione del Motu Proprio come faceva?
“Ho sempre reso un po’ tridentino il rito di Paolo VI con piccoli accorgimenti - dice don Alberto - con la recita del Padre nostro in latino e utilizzando anche altre formule dalla messa in latino e per questo sono stato anche richiamato. Una attenzione anche alla tradizione culturale dei fedeli: la montagna sta con la messa tridentina. Ma mi è stato detto che il mio stile celebrativo rompeva con lo stile degli altri parroci. Eppure non ho avuto mai nessun problema con i parroci dei paesi vicini, mentre qualche problema sembra che l’abbia qualcun altro con me”.
A questo punto il rischio per voi è alto e già in settimana potreste essere rimossi?
“E’ vero - dice don Marco Pizzocchi - ma come ho detto il cammino è iniziato e quindi in caso di rimozione ricorreremo a Roma e a quel punto sarà il Vaticano a doversi pronunciare”.
“Nella nostra diocesi non è mai successo che qualcuno fosse rimosso o sospeso eppure di cose ne sono successe e molte”.

Probabilmente, già domenica prossima don Alberto, don Marco e don Stefano potrebbero essere stati tolti dalle loro parrocchie e inviati a fare i “coadiutori” in qualche chiesa, possibilmente defilata, ma questa soluzione ormai non chiuderebbe il “problema” che è posto sulla piazza e non si tratta dell’essere pro o contro un modo di celebrare la messa, in quanto su questo il Motu Proprio è più che chiaro, ma della possibilità di concedere ai tre parroci di celebrare la messa secondo il rito che più rispecchia il loro senso della fede fosse anche solo “ad experimentum”.
Eugenio Di Maio

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